Ripercorriamo vita e carriera della grande artista – a cura di Rebecca Guette
La vita della pittora Artemisia Gentileschi rischia di perdersi nel dimenticatoio di una storia maschilista ed è doveroso parlare di questa icona di coraggio: una donna che ha saputo rompere il silenzio dell’abuso lasciandosi alle spalle pregiudizi vecchi quanto il genere femminile stesso e lottare per quello che era il suo mestiere e la sua passione più grande, la pittura, all’epoca preclusa al gentil sesso.
Nata a Roma nel 1593, Artemisia Gentileschi cresce tra colori ad olio e pennelli che sin da bambina impara ad utilizzare con infiniti orgoglio ed ammirazione del padre e tra i due sboccia un rapporto che porterà l’allieva a superare il maestro. Artemisia lo affianca nei suoi lavori, iniziando con il completare alcune parti delle sue opere per poi sviluppare una propria maturità artistica fortemente influenzata da quella di Orazio, a sua volta di stampo caravaggesco. Intorno ai dodici anni, la ragazza si vede immersa in un mondo al maschile in seguito alla morte della madre. Da allora le sue uniche compagnie saranno il resto della famiglia e i colleghi e modelli del padre. Un continuo viavai che le causerà una pessima reputazione sociale.
Artemisia Gentileschi

La fama del padre, fino ad allora pittore in decadenza, ritrova lustro grazie alle fruttuose collaborazioni con Agostino Tassi, che portano i due a ricevere persino una commissione da parte del nipote del Papa, il cardinale Scipione Borghese. È proprio in questo periodo che in Tassi nasce un’ossessione per la Gentileschi che non lo abbandonerà fino al giorno in cui abuserà di lei.
Lo stupro subito segna pesantemente Artemisia e la sua produzione, ma la ragazza, allora sui diciassette anni, elabora il trauma rappresentandolo in un quadro dalla splendida crudezza: “Susanna e i vecchioni”. L’opera fa riferimento ad un episodio biblico nel quale la pittrice convoglia la propria dolorosa esperienza, ossia quello della giovane Susanna che viene sorpresa, un attimo prima di lavarsi, da due uomini che la sottopongono ad un ricatto sessuale: o acconsentirà, o riferiranno al marito, chiaramente mentendo, di averla vista con un amante. Non è un caso che uno degli uomini che stanno minacciando Susanna/Artemisia abbia la fattezze proprio di Tassi, con il quale il padre, nel frattempo, stava organizzando un matrimonio riparatore che, secondo le credenze del tempo, avrebbe cancellato il disonore subito. Tassi aveva temporeggiato per quasi un anno ed alla fine le nozze non si tennero dato che l’uomo, si scoprì, era già sposato.
Artemisia Gentileschi
È allora che, con il pieno sostegno della famiglia, Artemisia sporge coraggiosamente denuncia. Contro l’aggressore, tuttavia, non vi è nessuna “prova” e continua a dichiararsi innocente con l’appoggio degli amici, mentre Artemisia è vittima di stereotipi e luoghi comuni. La si accusa di facili costumi dato che lavora a stretto contatto con molti uomini, viene sottoposta ad umilianti ed inutili visite ginecologiche e a torture (le verranno spezzate le dita per impossibilitarla alla pittura ed in alcuni dei suoi autoritratti ritrae senza esitazione le dita deformi). Non è insomma vista di buon occhio dal tribunale, ma a salvare il suo nome giunge Giovan Battista Stiattesi, collega di Tassi e Orazio, che si schiera dalla parte della ragazza e conferma la sua versione ottenendo, dopo sette mesi di processo, una condanna all’esilio per lo stupratore che, però, non sconterà mai.
Trasferitasi a Firenze, Artemisia inizia una nuova vita nel tentativo di dimenticare i fantasmi di quella vecchia: sposa il fratello del testimone che l’aveva salvata, continua a dipingere guadagnando un discreto successo e nel 1616, poco più che ventenne, è la prima donna ammessa all’Accademia del Disegno di Firenze inserendosi appieno nell’élite artistica della città. È questo il periodo in cui realizza, più o meno contemporaneamente, i capolavori che la consacreranno: “Giaele e Sisara” e “Giuditta che decapita Oloferne“, entrambi ispirati ancora una volta ad episodi biblici.
Artemisia

Ad un primo, ingenuo sguardo, possiamo dire che la scena sia romantica, quasi idilliaca: un giovane che riposa poggiandosi sulle gambe di una ragazza attraente vestita di un abito bianco e giallo e con un’acconciatura curata. Solo dopo pochi istanti lo spettatore si accorge dell’agghiacciante posa di Giaele, che con una mano non sta accarezzando i capelli di Sisara, bensì stringe una punta di ferro contro la sua tempia, mentre l’altro braccio è teso nell’attimo prima di scaricare un colpo di martello.
Per quanto riguarda il secondo, l’atmosfera è ben diversa. Questa volta, la ragazza ha già aggredito la sua vittima, che sta agonizzando sul letto di morte. Giuditta non è sola: è assistita da un’ancella che tenta di immobilizzare il generale Oloferne cui è stata brutalmente recisa la gola. Sono entrambi quadri che all’epoca, come si può ben immaginare, suscitarono scalpore in primis per la violenza rappresentata, in secondo luogo perché l’autore era un’autrice.
Caratteristica comune ad entrambi è lo sguardo fermo e tagliente delle donne cui Artemisia presta i propri lineamenti, sguardo molto diverso da quello intimorito di Susanna, succube dei propri aguzzini. La pittrice si vendica idealmente assassinando quello che di fatto è lo stesso uomo dai capelli e barba scuri, Agostino Tassi, avendo cura di mettere in primo piano, in Giuditta che decapita Oloferne, i rivoli di sangue sulle lenzuola, evidente rimando alla violenza subita anni prima e simbolo della sua rivalsa.
Artemisia Gentileschi

Nella sua vita Artemisia viaggerà molto sia per curiosità personale che per lavoro, visitando i maggiori centri artistici della nostra penisola, tra cui Roma, Venezia e Napoli, e si spingerà anche all’estero, a Londra, per un breve periodo. Ovunque vada, Artemisia riesce ad abbattere i pregiudizi legati alla sua epoca e lascia che sia la propria maestria a zittirli con un dito sulle labbra. Un’artista tanto determinata quanto spesso accantonata, benché i suoi quadri siano degni degli Uffizi, una donna dall’incredibile resilienza che ha saputo far sentire la propria voce ed il cui nome è ancora oggi un grido di libertà.